mercoledì 10 ottobre 2007

Intervista ad Enrico Crivellaro

Enrico Crivellaro è un chitarrista blues da tempo affermato a livello internazionale. Dopo un'esperienza durata 4 anni negli Stati Uniti (prima Boston poi Los Angeles) è entrato nelle grazie del blues mondiale suonando con i migliori artisti. La lista è lunghissima e va letta nel sito ufficiale, www.enricocrivellaro.com

Enrico, da diverso tempo ormai suoni il blues in ogni parte del mondo. Con gruppi che portano il tuo nome ma anche con tanti altri bravi musicisti. E’ impossibile non conoscerti anche perchè rappresenti una specie di sogno, ovvero un qualcosa che sarebbe bello raggiungere con la volontà e la bravura. E’ il momento di fare un piccolo bilancio.... di cosa vai orgoglioso e invece cosa non ti è piaciuto?


Ti ringrazio per la domanda, e mi piace che ti sia servito della parola “sogno” per formularla. Credo che la vita sia fatta di sogni, e che la poesia della vita sia tutta racchiusa nei passi verso l’ignoto che si fanno per realizzare le proprie aspirazioni. Possiamo scegliere di vivere la nostra vita in un modo più conservativo, oppure di tentare la sorte ed inseguire dei modelli di vita in qualche modo alternativi. Questa seconda visione sottintende dei rischi non trascurabili, ad esempio quello di passare degli anni ad investire in qualcosa che poi non porta i frutti sperati. Scegliere un modello di vita più “normale” ha forse meno rischi, ma certo non meno difficoltà, e ho un grandissimo rispetto per chi diversamente da me ha scelto quest’altra strada. Detto questo, la mia vocazione sin da giovane era quella di vivere da dentro il mondo della musica, quindi non soltanto suonare la chitarra in una band, ma anche cercare di capire il substrato culturale che sottintende la musica stessa. La musica è imprescindibile dalla cultura, dalla storia e dalla società, e sono queste componenti che determinano la nascita e lo sviluppo di diversi generi musicali in diverse zone geografiche. Dal momento che sin da molto giovane mi sono appassionato al Blues, ho sentito ad un certo punto l’esigenza e il desiderio di andare negli Stati Uniti a cercare di capirne di più.
Credo di potere rispondere alla domanda dicendo che probabilmente ciò di cui vado più orgoglioso, dopo questi anni, è il coraggio che ho avuto nel salire su quell’aereo senza sapere che cosa avrei fatto, dove avrei vissuto, quando e se sarei ritornato. Il viaggio, iniziato con questa incoscienza, è poi diventata l’avventura più pregnante della mia vita, ed è ancora in corso. E’ un viaggio più metafisico che terreno, in realtà. Ho senz’altro conosciuto a fondo la cultura americana e la musica che mi appassionava, ma soprattutto ho fatto un viaggio dentro me stesso, imparando a scoprire risorse che non pensavo di avere, a confrontarmi con idee, principi e visioni a me prima sconosciute, ad apprezzare non solo la musica, ma piuttosto le persone. Ho sviluppato l’abito mentale di apprezzare la diversità e di considerarla la fonte della ricchezza culturale, e il motore che muove le idee e la musica. Il Jazz non sarebbe nato senza l’incrocio di culture che è avvenuto in America, come pure la Bossa Nova è figlia del melting pot brasiliano. Apprezzare le culture e le loro diversità, e non diffidarne, è la chiave per capire la musica e per crearne di nuova.
Potrei parlare per ore di molte cose di cui vado orgoglioso (l’avere suonato con molti dei miei idoli di gioventù, l’avere completato gli studi, i dischi registrati, ecc), e anche dei momenti di difficoltà (i sacrifici, l’essere io il “diverso” e l’immigrato, l’avere scelto un genere musicale di nicchia, la crisi della musica registrata, e via così), ma se devo fare un bilancio di questi anni, non posso che ringraziare il giorno in cui ho deciso di inseguire quel mio sogno. Anche se in seguito le aspirazioni cambiano, l’abitudine a provarci, e ad andare all’arrembaggio quando la vita impone delle scelte rischiose, rimane il tratto intellettuale che il primo viaggio alle radici del Blues mi ha insegnato.

Hai all'attivo la partecipazione in diversi Cd, sei un "animale da concerto", hai qualche Cd uscito con il tuo nome ed ultimamente sei partito con un'etichetta discografica attenta ai bravi musicisti che stanno nel mondo. Qual'è la tua vera dimensione e soprattutto qual' è la giusta dimensione di un bluesman al giorno d'oggi? Si può ancora parlare di “uomo del blues”?

Sono un grande appassionato di musica, e cerco di non esaurire il mio interesse in una sola dimensione. L’universo musicale è fatto di due grandi mondi, quello artistico e quello del business. Entrambi racchiudono tantissime sfaccettature, e chi fa il musicista finisce spesso per esplorare molte di queste facce. Io sono sempre stato attratto dal lato artistico, e sono sempre stato poco a mio agio nel versante del business. Mi piace ascoltare una buona band, mi piace suonare, mi piace registrare e produrre dischi. Dovere pensare a come vendere i CD, trattare di soldi, e auto-promuoversi sono alcune delle mansioni dei musicisti professionisti, e onestamente non le sopporto. Primo perché non ci sono per niente tagliato, secondo perché le considero cose che in qualche modo rovinano l’integrità dei musicisti, che da artisti diventano commercianti.
Per me fare il musicista significa, semplicemente, creare della musica. Questo può essere fatto sia suonando dal vivo, sia in studio, sia producendo altri artisti, aiutandoli a tirare fuori quanto di meglio possono dare. Non ho mai cambiato idea e continuo a privilegiare il lato emozionale della musica, e in tutti i contesti in cui opero cerco di non perdere mai di vista questa convinzione. Un concerto, un assolo, un disco, una canzone devono dare delle emozioni forti agli ascoltatori. In questo senso reputo che tutto quello che faccio in ambito musicale sia riconducibile ad una singola visione, quella di fare della buona musica con i mezzi di cui dispongo.
Quanto al ruolo del bluesman nel 2007, la situazione è piuttosto complessa ed articolata. Per quanto sia musica di nicchia e meno commerciale di altri generi, il Blues rimane pur sempre uno stile che ha un pubblico vasto e internazionale. Viaggio spesso e incontro appassionati sfegatati di Blues in Canada, in Brasile, in Australia, in Belgio, in Malesia e anche ai Caraibi. Tanto per citare alcuni posti, ma in tutto il mondo è così. Magari in ciascun Paese gli appassionati non sono milioni, ma quando li metti tutti insieme e fai la somma, scopri che un bluesman ha un pubblico più ampio di quello che può avere qualsiasi popstar italiana, che è limitata dalla lingua a cantare prevalentemente per il pubblico italiano. Paradossalmente ha un mercato più grande Magic Slim, che suona ai festival blues e nei club di tutto il mondo, di quanto ne abbia Vasco Rossi, che sì riempe gli stadi, ma soltanto in Italia. Fare il bluesman oggi significa rendersi conto di tutto questo, e operare con una mentalità internazionale. Non si suonerà mai nei mega-stadi (anche se alcuni bluesmen, Buddy Guy e B.B. King sono soltanto due esempi, gli stadi li riempiono!), ma si gira in tutto il mondo in un circuito più che dignitoso di club, locali e festival.
In Italia già da molti anni ci sono musicisti jazz, cito tra molti altri Paolo Fresu, Stefano Bollani, Stefano Di Battista, che si sono sdoganati dalla realtà locale e sono entrati con piena dignità nel circuito internazionale, addirittura registrando per la Blue Note. Nel Blues italiano questo è successo in rarissimi casi, ma vedo molti musicisti che hanno la possibilità di fare il salto, come già hanno fatto altri colleghi bluesmen danesi, olandesi, francesi e belgi.

Torniamo in Italia. Vista la situazione all'estero, cosa puoi dire di come stanno le cose qui da noi? E' tanto peggio come tutti dicono o in fondo non va tanto male?

Non voglio a tutti i costi fare l’esterofilo, ma devo riconoscere che in altri Paesi la situazione è molto migliore. Particolarmente nei Paesi di cultura anglosassone, ma anche da tante altre parti. Qualche mese fa ho avuto la fortuna di suonare a Puerto Escondido, in Messico, un posto meraviglioso. La responsabile del locale in cui suonavamo mi si è rivolta dicendo “che bello quando venite voi. Io vorrei fare musica dal vivo ogni sera, purtroppo qui non abbiamo abbastanza gruppi e devo chiamare il DJ”. Un aneddoto che la dice lunga!
Le cause dell’anomalia italiana sono molteplici. Molti club non sono al passo con i tempi, non esiste un circuito di radio che promuovono la musica indipendente, le etichette discografiche indipendenti sono rarissime, la gestione e la distribuzione delle royalties attraverso la SIAE non aiuta i musicisti ne’ gli organizzatori di concerti. Oltre a tutto questo, per qualche motivo non è mai stata importata in Italia l’idea che la musica dal vivo è un business. In tutto il mondo la band serve ad attirare gente, e a fare guadagnare un locale ben più di quanto guadagnerebbe senza la band. Basta fare un giro a Dublino, Singapore, Città Del Capo…dovunque nel mondo, i club con musica dal vivo sono quasi sempre strapieni di gente che paga delle cifre anche cospicue per l’ingresso, quelli senza musica sono mezzi vuoti. In Italia, invece, la musica dal vivo è vista come un costo extra, come un voce di spesa sicuramente in perdita. Come risultato, anche i musicisti italiani—sottopagati, costretti al dilettantismo, sfiduciati e in un ambiente che non fornisce occasioni di scambio, confronto e crescita—si ritrovano a diventare mediocri a livello di musica, immagine e spettacolo, se confrontati con i loro colleghi nord-europei, americani, e asiatici.
Si è quindi nel tempo creata un’incrostazione di mediocrità nel panorama della musica dal vivo italiana, che certo non aiuta le sorti di chi vuole fare della musica la propria professione. Fare il musicista professionista all’estero è un lavoro a tempo pieno. In Italia purtroppo si è da tempo scivolati verso una impostazione amatoriale, in cui l’unica fonte di guadagno del musicista è il cachet della serata. Certo questo non permette di vivere di sola musica—le occasioni di guadagno infatti sono generalmente in tutt’altre direzioni. Nei vari tour che faccio in Australia è normale che nel pomeriggio, prima di ogni concerto, si facciano una o due interviste/apparizioni promozionali alle radio nazionali. Le royalties di quelle apparizioni sono spesso ben più consistenti dei proventi della serata. Questo aiuta i musicisti sia a livello di profitto che di immagine e status, ma aiuta anche le stesse radio, che possono fare una programmazione ricchissima di musica di ottima qualità, aiuta i club e gli organizzatori dei concerti, e in definitiva aiuta la maturazione di un pubblico informato, colto e preparato.
Ciò che in Italia manca è proprio questa sinergia, e purtroppo non vedo ancora nessun segnale di svolta.

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